Storia del Caucaso: l’eccidio di Sumgait trentaquattro anni dopo

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Il monumento dell’eccidio di Sumgait costruito nella città di Stepanakert nella Repubblica del Nagorno-Karabakh (Credits: Yerevantsi, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons)

Geopolitical Report ISSN 2785-2598 Volume 16 Issue 7
Author: Igor Dorfman-Lazarev

Nella storia del Caucaso l’eccidio di Sumgait è un evento che ricopre particolare importanza le cui conseguenze sono ancora visibili nelle relazioni tra Armenia e Azerbaigian e nella narrativa che oppone Yerevan a Baku, in special modo a seguito del conflitto del Nagorno-Karabakh.

Gli ultimi eventi in Russia ci ricordano del ruolo enorme che la manipolazione della storia antica può avere ancor oggi nello spazio post-sovietico. Guardando verso il Caucaso del sud, possiamo constatare che la storiografia nazionalista dell’Azerbaigian presenta gli armeni come una popolazione senza radici che, presuntamente, si sarebbe stabilita nel Caucaso meridionale solo nel corso degli ultimi due secoli.Tale dottrina si trova alla base della politica espansionista dell’Azerbaigian e del rifiuto di riconoscere agli armeni il diritto di risiedere nell’Artsakh (Nagornyj Karabakh). Negli ultimi trentaquattro anni questa dottrina ha anche fornito all’Azerbaigian una base ideologica per la sua opera di distruzione del patrimonio storico armeno a Baku e in altre regioni dove gli armeni vivevano da secoli, e in particolare a Nakhichevan e nei territori recentemente conquistati dell’Artsakh. È per portar avanti questa opera di distruzione che i pubblici ufficiali dell’Azerbaigian orchestrano anche una denigrazione pubblica degli armeni che spesso porta un inconfondibile carattere razzista.

La storiografia nazionalista dell’Azerbaigian, che rinnega il ruolo degli armeni nella storia del Caucaso del sud, fu creata nel peculiare clima sociale e culturale dell’URSS. Yuri Slezkine, professore di storia russa presso l’Università di Berkeley, sottolinea che, contrariamente a un’opinione largamente diffusa, Lenin e Stalin, pur affrontando la questione delle nazionalità in un apparente legame con la dottrina marxista della lotta di classe, mai abbandonarono la loro percezione intrinseca di identità etnica come un tratto umano imperituro, indipendente dagli sviluppi politici ed economici.[1] Prima che si raggiungesse lo stadio «escatologico» del comunismo, le identità etniche rappresentavano ai loro occhi dei fattori politici di primo piano. Ciò si riflette nei numerosi scritti di Stalin pubblicati sin dal 1913. Secondo il despota sovietico, le istituzioni governative di ciascuna repubblica dovevano essere amministrate da impiegati che conoscessero «la vita materiale, il temperamento, i costumi, la psicologia e la lingua [in singolare]» della nazione titolare della repubblica. Ciò a spese delle popolazioni di diversa origine, che da secoli si erano radicate anch’esse sullo stesso territorio. Di conseguenza, già prima della Seconda guerra mondiale, il territorio di ciascuna «repubblica» dell’Unione era stato progressivamente identificato con una particolare «nazione» concepita come una categoria innata, con i suoi costumi e con il suo carattere. Ci si aspettava che in questo modo ogni repubblica potesse diventare un corpo sociale sempre più «monolitico»: una cellula dello Stato totalitario.

Tra il 1920 e il 1925, la Commissione Permanente per le Indagini sulla Composizione Tribale della popolazione della Russia e dei paesi limitrofi, nominata dal governo bolscevico, elaborò istruzioni complesse volte a garantire che la registrazione della nazionalità di ciascun cittadino non avvenisse sulla base della propria opinione, coscienza o scelta ma «secondo dei criteri oggettivi», e cioè la propria discendenza etnica. All’inizio degli anni Trenta il linguaggio delle «nazionalità», concepite come categorie etniche distinte, era già ampiamente utilizzato in tutto il Paese, divenendo addirittura un fondamentale indicatore identitario innestato nella mentalità dei cittadini sovietici.

La definizione staliniana di nazionalità sarebbe stata canonizzata nelle tre edizioni successive della Grande Enciclopedia Sovietica pubblicate tra il 1939 e il 1974.[2] Mentre la nazionalità fu così privata di dimensione politica, quel lato istintivo, che comprendeva in particolare un «carattere» e una «costituzione psicologica» ma che altrimenti era lasciato imprecisato, fu riaffermato dall’Enciclopedia come sua componente obbligatoria. Questa concezione di nazionalità sarà irta di pesanti conseguenze per le percezioni reciproche delle popolazioni sovietiche e sarebbe anche sopravvissuta all’URSS.

Un punto di riferimento nella crescente etnicizzazione dell’Unione Sovietica può essere scorto nel discorso programmatico pronunciato da Stalin nel 1934, in cui egli affermò che «le vestigia del capitalismo nella coscienza popolare» sono «di gran lunga più tenaci nella sfera della questione delle nazionalità».[3] In tal modo, tutto ciò che afferiva alla questione nazionale stava diventando eminentemente politico e doveva quindi essere sottoposto a una sorveglianza sempre più stretta. Meno di tre anni separavano questo discorso dalle deportazioni, tra il 1936 e il 1937, dei Talisci, dei Lettoni, dei Finni, dei Greci, degli Estoni, dei Rumeni e dei Coreani – le prime della serie di deportazioni di gruppi etnici compatti sulle distese del URSS.[4] Sotto il cuneo di queste misure, la concezione dell’identità nazionale nell’URSS è stata modificata per sempre. Che interi popoli, definiti secondo criteri etnici, potessero essere dichiarati nemici, inclini a nuocere lo Stato e il popolo sovietico nella sua interezza, influenzò profondamente le reciproche percezioni dei cittadini sovietici attarverso tutto il paese.

Se, da un lato, i dirigenti sovietici plasmarono nuove nazionalità promuovendo in ogni caso stretti legami tra una data unità territoriale amministrativa e l’origine etnica di una sola delle sue diverse popolazioni, dall’altra, la loro politica nazionale consisteva nel trasformare la discendenza di ogni cittadino sovietico in una categoria giuridica. Nel 1938, le circolari del Commissariato dell’Interno (NKVD, il futuro KGB) spiegavano che non ci si poteva più scegliere la «nazionalità» di appartenenza, specificando anche che tale categoria non dipendeva né dal luogo di nascita, né dalla residenza, né ancora dalla lingua madre, ma unicamente dall’origine dei genitori, l’unico criterio riconosciuto come «la nazionalità reale» (действительная национальность – dejstvitel’naya nacional’nost’). Il passaporto sovietico inchiodava così ogni cittadino alla sua origine biologica che si esprimeva, come l’abbiamo visto, nel proprio «carattere» e nella «costituzione psicologica». Allo stesso tempo, le deportazioni dei popoli erano agli occhi di tutti un ricordo costante dell’enorme peso di cui la nuova categoria giuridica di nazionalità era carica.

L’etnicizzazione della società sovietica avrebbe accentuato l’antico antagonismo tra i popoli, ora incorporati nelle unità territoriali limitrofe, che erano in processo di consolidare le loro esclusive identità storico-culturali. I dirigenti delle repubbliche spesso chiudevano gli occhi ai pregiudizi razziali delle loro popolazioni. Eppure, questi dirigenti non solo rappresentavano le rispettive nazioni, ma impersonificavano anche lo stesso Stato comunista il quale, in accordo con la concezione leninista e stalinista, era composto di unità nazionali. Investiti di questo statuto ideologico, i dirigenti del Partito patrocinarono anche il consolidamento delle dottrine storiografiche delle rispettive repubbliche che rivendicavano radici autoctone e che spesso si sviluppavano in un completo distacco l’una dall’altra. È così che fu partorita in Azerbaigian la mitologia storiografica che rivendica una continuità culturale diretta tra l’Albania del Caucaso (un regno cristiano abolito dai persiani nel sesto secolo, la cui lingua dominante era di ceppo caucasico) e gli azerbaigiani turcofoni, lasciando gli armeni fuori del quadro storico. La concezione «primordiale» di nazionalità modellata nell’URSS, che spesso comporta tratti razzisti, si trova non soltanto alla base dei conflitti interetnici del tardo periodo sovietico, ma continua fino ad oggi a condizionare i rapporti tra le nazioni post-sovietiche. Oggi, questa concezione, che privilegia l’origine e disprezza la scelta individuale e l’autodeterminazione, si palesa anche nella retorica nazionalista russa.

Gli eventi di Sumgait, Gǝncǝ  e Baku nella storia del Caucaso meridionale

Tornando al Caucaso meridionale, possiamo evocare tre tragici eventi che hanno segnato gli ultimi anni dell’epoca sovietica. I testimoni dei massacri degli armeni in tre grandi città dell’Azerbaigian – a Sumgait nel febbraio 1988 (cioè quasi quattro anni prima del crollo dell’URSS), a Gǝncǝ (allora, Kirovabad) nel novembre 1988 e a Baku nel gennaio 1990 – tradiscono degli innegabili tratti di «tribalizzazione» (nei termini di Hannah Arendt) avvenuta durante l’epoca sovietica.[5] Numerose vittime di questi massacri, i loro testimoni oculari e osservatori esterni hanno descritto esplosioni di massa di estrema crudeltà, quasi mai contrastate da parte della popolazione locale. Durante il pogrom di Baku, lo zio dello scrivente, Vačè Petròvič Kalantàrov (nato a Baku nel 1906), allora ottantatreenne, fu trascinato dai suoi vicini azeri fuori dal suo appartamento – lo stesso dove, dopo la Seconda guerra mondiale, aveva adottato un orfano azerbaigiano, Natiq – e fu gettato dal terzo piano nella tromba delle scale.  La grande casa dove viveva, in via Mamedaliev 16 (la famosa “Casa con Atlanti” costruita nel 1900), in cui durante l’epoca sovietica avevano vissuto diverse generazioni di numerose famiglie armene, fu distrutta senza un motivo apparente nel 2010.

È significativo che nel pogrom di Baku gli assalitori abbiano preso di mira anche azeri, russi, ebrei e georgiani che erano noti ai loro vicini per avere addirittura una remota discendenza etnica armena; tra i profughi vi erano registrati azerbaigiani con un solo nonno armeno.[6] Bisogna ammettere che si è verificata anche l’espulsione reciproca di azeri dall’Armenia, eppure le atrocità commesse nei pogrom in Azerbaigian rimangono impareggiabili. Questi eventi sono stati spesso interpretati in Occidente come una mera conseguenza dell’indebolimento dello Stato centralizzato. Sorprendentemente, il rapporto di questi fenomeni alla storia economica e istituzionale dell’URSS, allo sviluppo della sua ideologia ufficiale, ai principî educativi e alla formazione delle mentalità nel paese durante i decenni precedenti non è stato quasi mai esplorato dagli studiosi. Eppure, a differenza di numerose rivolte anti-armene sul territorio dell’attuale Azerbaigian durante l’era presovietica, gli eventi accaduti durante gli ultimi anni dell’URSS hanno portato alla fuga di quasi tutti i sopravvissuti armeni. Il conseguente abbandono dell’Azerbaigian da parte degli armeni fu un fenomeno addirittura più radicale di quello che era seguito al genocidio degli armeni nell’impero ottomano negli anni 1915–1916.

Nonostante la vasta pulizia etnica e culturale che è stata attuata sul territorio dell’Azerbaigian nel trentennio trascorso dopo gli eccidi di Sumgait, Gǝncǝ e Baku, osservatori esterni dell’Azerbaigian indicano la seguente circostanza: sebbene la maggioranza della sua popolazione sia musulmana, costituzionalmente all’Islam non è riconosciuto in questo Paese il posto di una religione privilegiata. In contrasto con il posto d’onore riservato alle rispettive Chiese in Armenia e in Georgia, questo stato di cose è considerato da diversi osservatori come segno di un carattere progressista dell’Azerbaigian, sia come stato che come società. Prima che questa estimazione fosse stata ripresa da osservatori occidentali, era già stata articolata da Ramiz Mehdiyev, un tempo professore di comunismo scientifico all’Università statale di Baku e, negli anni successivi, il direttore dell’amministrazione presidenziale dell’Azerbaigian (1994–2019). A nostro avviso, però, questa caratteristica dell’Azerbaigian è piuttosto indicativa del grado con cui la dottrina dell’identità nazionale, oggi abbracciata dalla classe dirigente dell’Azerbaigian, domina incontrastata in questo paese: nessuna istituzione sviluppatasi dopo la caduta dell’URSS, sia essa religiosa o laica, nè alcuna concezione alternativa dell’identità nazionale possono sfidare questo monopolio ideologico.

Recentemente abbiamo potuto osservare la celebrazione di questa identità, questa volta di stampo apertamente razzista, nel «Parco dei Trofei Militari» inaugurato nel gennaio 2021 nella capitale Baku dal Presidente Ilham Aliev in persona per celebrare la vittoria dell’Azerbaigian sull’Armenia. Kamran Əsədov e Rəşid Məhərrəmov, gli artisti – entrambi diplomati all’Accademia statale di pittura dell’Azerbaigian – che hanno diretto la realizzazione dei manichini di cera che rappresentano i soldati armeni uccisi in guerra, hanno riconosciuto i loro tentativi per rendere le immagini degli armeni più realistiche che si può e, al contempo, più brutte che si può: «Abbiamo cercato di realizzare immagini per quanto possibile realistiche»; «Di solito ci sforziamo a produrre opere di massimo grado di bellezza». Per raggiungere tale obiettivo, si sono concentrati sulla riproduzione delle caratteristiche somatiche delle loro vittime: «Ci siamo adoperati per creare immagini più deformate che si può». E così, nelle loro opere hanno messo in evidenza quei tratti fisici per cui gli armeni sono comunemente stigmatizzati dagli azeri: «Li abbiamo rappresentati ricorrendo alla forma aquilina dei loro nasi, all’assenza delle ossa posteriori dei loro crani e ad altre caratteristiche».[7] In tale modo, le concezioni nazionali ereditate dal regime totalitario continuano ancor oggi a determinare le vicende di diverse parti del continente.

Fonti

[1] Yuri Slezkine (1994) The USSR as a Communal Apartment, or How a Socialist State Promoted Ethnic Particularism, Slavic Review Vol. 53(2), pp. 414-452.

[2] AA.VV. (1926-1990) Bol’šaja sovetskaja enciklopedija. Accessibile al sito: http://www.rubricon.com/about_bse_3.asp.

[3] Joseph V. Stalin (1934) Report to the Seventeenth Party Congress on the Work of the Central Committee of the C.P.S.U.(B.), in Works Vol. 13, 1930 – January 1934, Foreign Languages Publishing House, Moscow, 1954. Accessibile al sito: https://www.marxists.org/reference/archive/stalin/works/1934/01/26.htm#1.

[4]Aurélie Campana (2007) The Soviet Massive Deportations – A Chronology, Mass Violence & Résistance, SciencesPo. Accessibile al sito web: http://bo-k2s.sciences-po.fr/mass-violence-war-massacre-resistance/fr/document/soviet-massive-deportations-chronology, ISSN 1961-9898

[5] Pietro Kuciukian, Samvel Shahmuratian (2012) La tragedia di Sumgait 1988: un pogrom di armeni nell’Unione Sovietica, Milano: Guerini & Associati; Marina Grigoryan (2016) Genocid dlinoyu v vek. Bakinskaya tragediya v svidetel’stvax ochevidcev. Kniga pervaya, Erevan: Centr obshhestvennyx svyazej i informacii apparata prezidenta RA

[6] I. Mosesova (1998) Gli armeni di Baku: la vita e l’esodo, Erevan, pp. 183–84

[7] Şahanə Rəhimli (2021) “Çalışdıq ki, mümkün qədər realist obrazlar olsun” – Erməni hərbçilərin maketlərini onlar hazırlayıb – FOTOLAR, AzVision.az. Accessibile al sito web: https://azvision.az/news/257089/-calisdiq-ki,-mumkun-qederrealist-obrazlar-olsun–ermeni-herbcilerin-maketlerini-onlar-haz; irlayib–fotolar-%20-.htm.


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